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Si impone il confronto tra moralisti, ed utilizzatori tra necessità ed interessi. Una regolamentazione che potrebbe portare al controllo, ed alla gestione del fenomeno Marijuana, ma sopratutto degli interessi che da questa ne dervian.
La sentenza 28 giugno 2011, n. 25674 conferma l'opinione – più volta
espressa da chi scrive – che gli indirizzi giurisprudenziali che
riguardano la rilevanza penale della coltivazione di piante che possano
produrre sostanze stupefacenti, risultano, allo stato attuale,
tutt'altro che pacifici ed univoci.
La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, infatti, rompe il
fronte della giurisdizionale di legittimità (sino ad oggi granitico e
costante nell'affermare sic et simpliciter l'illiceità penale
della condotta coltivativa) e coglie l'occasione per porre l'accento
sullo specifico elemento dell'offensività dell'azione, inteso quale
discrimine fra fatto-reato e fatto-non reato.
La sentenza segna, pertanto, un primo, seppur timido, passo di
allontanamento rispetto a quelle più conservatrici e radicali posizioni
assunte dalla giurisprudenza, le quali hanno trovato la loro massima
espressione nella nota sentenza delle SS.UU., sentenza 24 aprile -10 Luglio 2008, n. 28605.
Con tale pronunzia veniva negata, infatti, ogni distinzione fra la coltivazione domestica e coltivazione agraria, categorie
fattuali che erano state elaborate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, onde potere operare una concreta distinzione fra
condotte che presentavano – guarda caso – proprio stimmate di
offensività tra loro evidentemente e sostanzialmente differenti.
Pur con grande prudenza, la sentenza 25674/2011 evidenzia, infatti,
come proprio questo negativo pronunziamento delle SS.UU. si sia
soffermato, con specifica attenzione, proprio sul tema dell'offensività,
conferendo al medesimo, rilevante importanza.
La Quarta Sezione, quindi, attraverso un'esposizione articolata di vari
esempi normativi nei quali emerge la strategicità del concetto di
offensività, dimostra, però di avere iniziato un'opera di recepimento e
metabolizzazione dell'insieme delle considerazioni formulate in plurime
sentenze pronunziate dai giudici di merito sull'argomento.
Va, infatti, detto che, nonostante il distinguo sopra richiamato, le
SS.UU. avevano tassativamente confinato la coltivazione all'interno del
recinto dell'illecito penale, disattendendo, così, il principio, in base
al quale si evocava la necessità di una verifica effettiva e reale
della sussunzione della condotta coltivativa nella parte precettiva
della norma incriminatrice.
L'importanza della pronunzia della Quarta Sezione consiste, quindi,
nell'avere privilegiato non già un dato astratto (il divieto precettivo
assoluto della coltivazione), bensì un riferimento concreto che è relativo alla idoneità del prodotto della coltivazione a produrre effetti droganti.
Il dato di fatto e di diritto da cui muovere è, quindi, che la
coltivazione non può apparire penalmente rilevante, quindi, quando il
numero delle piante piantumate e la produzione, così, ottenuta appaia
talmente minima da non porre minaccia ai beni della salute o della
sicurezza pubblica.
L'orientamento della Suprema Corte, dunque, si pone nel senso che il
limite, in base al quale la condotta coltivativa diviene offensiva (e
dunque assume importanza penale) è dato o dal superamento della soglia
drogante, oppure dalla oggettiva modestia del numero della piante
(apparentemente meno rilevante e di mero corollario apparirebbe- il
condizionale è d'obbligo - l'insieme delle modalità) attraverso le quali
la coltivazione si esprime.
Non è però casuale, quindi, che la sentenza del giudice di legittimità qualifichi l'azione incriminata come “coltivazione domestica” (e non si può pensare né ad un lapsus od
ad un refuso), muovendo, pertanto, da quella disamina complessiva
dell'azione – all'apparenza relegata ai margini dei criteri decisionali -
dalla quale emergano in concreto parametri estremamente minimali.
Possiamo, quindi, pensare che, in virtù di questi segnali seppure
contraddittori, si sia innescato un processo di irreversibile e
progressiva modifica interpretativa in senso favorevole alla
coltivazione?
La risposta, in proposito, è assai ardua ed il quesito impone grande
prudenza, perchè non è dato sapersi se la sentenza della Quarta Sezione
sia frutto di una valutazione estemporanea e contingente, oppure essa se
mira ad introdurre progressivamente un approccio meno giustizialista al
tema in questione.
Certo è, che il requisito della inoffensività appare costituire un
elemento che ben si coniuga con comportamenti che appaiano
inequivocabilmente preliminari e strumentali ad usi strettamente
personali di sostanze stupefacenti, quale è la forma di coltivazione a
suo tempo definita domestica.
La Corte, in buona sostanza, fa rientrare (dalla finestra ed in maniera
assai cauta) nell'alveo delle categorie interpretative, il concetto di coltivazione domestica (intesa come azione scriminata, cioè non punibile).
Tale principio pareva, invece, essere stata espulso dalla porta
principale, con il pronunziamento delle SS.UU., e così si alimentano
ulteriori incertezze ermeneutiche.
Si deve, inoltre, osservare che, se – come pacificamente sancito in
dottrina e giurisprudenza - lo scopo perseguito dal complesso delle
norme sugli stupefacenti è di carattere preventivo, in quanto mira al
contrasto della minaccia che le citate condotte determinano per i beni
giuridici della salute e sicurezza, venendo, così, conferito ai delitti
inseriti nel dpr 309/90, il carattere di reati di pericolo, l'offensività
dell'azione (e la sua antigiuridicità) dovrebbe essere ritenuta in re
ipsa, senza dovere verificare limiti di sorta in ordine al quantitativo.
Il parametro valutativo dell'offensività dovrebbe, quindi, produrre
effetti – ai fini decisori – limitati e circoscritti solo alla
graduazione ed individuazione del livello di gravità del fatto-reato.
La sua ravvisabilità o meno dovrebbe apparire strumentale al giudizio
di configurabilità concreta e di successiva applicabilità di eventuali
circostanze attenuanti od aggravanti.
fonte (http://www.altalex.com)
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